La crisi dell’automotive metafora del capitalismo
di Roberto Tiberio (operaio Stellantis)
L’automobile, elevata dal capitalismo a simbolo della libertà individuale, è stata per più di un secolo una delle merci e di sicuro una delle più importanti a spostare gli equilibri di tutta la produzione globale, se consideriamo fattori quali fatturati, lavoratori coinvolti e influenze socio culturali legati al suo utilizzo e alla sua vendita. L’industria dell’auto è un pachiderma che nell’economia capitalista risente di innumerevoli fattori strettamente connessi tra loro e che ne influenzano le dinamiche, quindi non deve sorprendere che la crisi che sta investendo il settore stia avendo ripercussioni sull'economia globale e, dal nostro punto di vista, conseguenze nefaste per la classe lavoratrice tutta.
Una crisi quindi, quella dell’industria automobilistica, legata alle crisi cicliche del modello capitalista, ma in questo caso anche dovuta al fatto che il settore sta attraversando una fase di transizione che storicamente non ha eguali. Se per oltre un secolo le vetture sono state mosse da motori endotermici alimentati da sottoprodotti del petrolio, si sta cercando ora di virare sulla mobilità elettrica, ufficialmente e mediaticamente allo scopo di contrastare il cambiamento climatico in atto che sta devastando il pianeta. Se possiamo ritenere valida questa motivazione, non lo è affatto l’approccio al problema. Infatti lasciare la gestione della questione ambientale ad aziende private e al mercato che mirano, per loro natura, esclusivamente al profitto è un controsenso che non porterà alcun beneficio alla collettività: saranno le classi oppresse a pagarne le conseguenze.
Il riassetto globale dell’automotive
L’eccessiva saturazione del mercato dei decenni precedenti, la passata pandemia e i conflitti che hanno rallentato l’approvvigionamento di componenti e l'aumento dei costi dell’energia che hanno portato a una diminuzione del saggio di profitto hanno comportato una riorganizzazione, da parte dei costruttori, dell’intero settore a livello globale per mantenere alti i profitti. È in atto dunque una concentrazione delle case automobilistiche in pochi enormi gruppi, allo scopo di ottimizzare le produzioni, ovvero ottenere maggiori profitti ed essere competitivi a livello mondiale.
L’«ottimizzazione» per i padroni avviene in vari modi. Uno di questi è appunto la politica di acquisizione tra marchi, che permette loro di condividere piattaforme di veicoli e componentistica, con il vantaggio di poter utilizzare meno stabilimenti per la produzione e spostarsi più agevolmente dove i costi sono minori. Possono intervenire con tagli massicci alla forza lavoro, sfruttando sempre più la classe lavoratrice gravata da ritmi di lavoro ormai insopportabili, e tagliando costi accessori, fondamentali per la salute e sicurezza dei lavoratori quali ad esempio la gestione della pulizia e i sistemi di sicurezza negli impianti.
Il quadro italiano
Il gruppo Stellantis sta attuando questi piani in maniera perentoria. La multinazionale a guida francese procede a vele spiegate in un processo di dismissione dall’Italia che, ricordiamolo, affonda le sue radici nell’era Marchionne, che con Fca e il suo contratto separato aveva tracciato il solco: ora Tavares ha impresso un’ulteriore, decisiva, accelerazione del processo di ristrutturazione e dismissione dei siti produttivi in Italia.
I dati che emergono dai report periodici sono esemplificativi. Il primo dato complessivo da sottolineare riguarda il crollo nella produzione di autovetture rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso: -23,8%. A questo calo contribuiscono tutti gli stabilimenti di assemblaggio di auto, con Mirafiori e Melfi che hanno dimezzato la produzione e Cassino che registra un -40%. Nel polo torinese il tracollo produttivo della storica fabbrica di auto è dovuto principalmente al calo nei volumi della 500 elettrica, che contribuisce per il 90% alla diminuzione della produzione. A questo si aggiunge, sempre a Torino, un taglio anche sui modelli Maserati, spostati a Mirafiori dopo la chiusura di Grugliasco. Rispetto alla fine del 2015 gli addetti alla produzione nel polo torinese si sono praticamente dimezzati, passando da 6415 a 3220, e con l’accordo di fine marzo sono stati firmati oltre 1000 altri esuberi, la maggior parte quadri, ma con una riduzione di 300 addetti anche in carrozzeria.
L’altro stabilimento in ginocchio è quello di Cassino, dove il primo trimestre ha fatto registrare una diminuzione del 40,7% rispetto al 2023, con solo 8.540 unità prodotte su un solo turno. Attualmente sono tre i modelli in produzione: le agonizzanti Alfa Romeo Giulia, Stelvio e Maserati Grecale. L’impatto occupazionale è stato devastante, con una perdita di oltre 1300 addetti tra la fine del 2015 e oggi, a cui si andranno a sommare gli ulteriori 820 esuberi tramite uscite incentivate firmati a fine marzo.
Il terzo stabilimento in ordine di criticità è quello di Melfi, dove i volumi hanno subìto un dimezzamento rispetto allo stesso periodo del 2023. Anche lo stabilimento lucano è stato interessato da un massiccio ricorso alle fuoriuscite volontarie incentivate, che dal 2021 ha causato l’esodo di 1600 dipendenti, portando l’occupazione a quota 5.570 lavoratori e lavoratrici e mandandone oltre 700 in trasferta a Pomigliano. Lo stabilimento campano sopravvive in qualche modo grazie alla (per ora) produzione della Panda.
Ad Atessa, dove vengono prodotti i veicoli commerciali leggeri, la festa quarantennale è finita con il taglio di migliaia di lavoratori in staff leasing e la soppressione del turno notturno, oltre al ricorso alla cassa integrazione per 1500 addetti. Seguendo il mantra della riduzione dei costi, non solo la direzione di Stellantis ha perseguito una strategia spietata di razionalizzazione nei propri stabilimenti italiani, ma sta anche decidendo di investire proprio dove i costi sono più contenuti. Che esista un trend di delocalizzazione verso l’est Europa e il Nord Africa non è una novità. Sostanzialmente quindi Stellantis in Italia sopravvive solo grazie agli ammortizzatori sociali e se ancora non chiude gli stabilimenti è solo perché cerca di estorcere quanti più soldi possibile alla collettività.
La situazione è grave anche in Europa
Le recenti notizie di una possibile fusione tra Stellantis e il gruppo Renault (svincolatasi dalla storica partnership con Nissan: sarà un caso?) potrebbero acuire queste dinamiche e spostare definitivamente il baricentro in Francia e decretare definitivamente la fine dell’industria automobilistica italiana.
Il riassetto industriale globale coinvolge anche gruppi considerati fino a poco tempo fa inattaccabili. È il caso di Volkswagen che, secondo le parole del Cfo Antlitz riscontra «un calo di vendite di 500 mila auto, l’equivalente di due stabilimenti». Nessuno però tra il managment tedesco si assume la responsabilità di scelte strategiche scellerate e scandali, come il famoso «dieselgate» o l’aver fatto «all-in» sull’elettrico, scelta poi rivelatasi errata. E così, per la prima volta nella sua storia, la chiusura di stabilimenti in Germania è più che una possibilità, rinnegando anche il patto stipulato nel 1994 con i sindacati, per congelare i licenziamenti fino al 2029, con tutte le conseguenze immaginabili per la classe lavoratrice.
Unire le lotte contro il capitalismo
Questa breve disamina dell’industria dell’auto in occidente (l’influenza della Cina e delle potenze emergenti merita un discorso a parte) può aiutare a focalizzare il nemico della classe lavoratrice e trovare le contromisure necessarie. La lotta è contro un nemico globale che si muove indiscriminatamente per cercare i maggiori profitti, senza barriere. Per contrastarlo l’unica possibilità è quella di unire i lavoratori di tutto il mondo contro la tirannia del capitale, oltrepassando le lotte intestine tra direzioni sindacali opportuniste, settarie e complici dei padroni, e liberarci dal capitalismo.