Partito di Alternativa Comunista

Rappresentanza sindacale: giù le mani dei padroni dalle rappresentanze dei lavoratori!

Rappresentanza sindacale:

giù le mani dei padroni dalle rappresentanze dei lavoratori!

 

 

 

di Diego Bossi (operaio Pirelli)

 

In questo articolo affronteremo, in sintesi, il tema della rappresentanza sindacale, una questione spesso sottovalutata da molti lavoratori, derubricata a «roba da addetti ai lavori» e non percepita come incisiva sulle loro condizioni lavorative e di vita.
Cercheremo in queste righe di spiegare alle lavoratrici e ai lavoratori perché le regole sulla rappresentanza sindacale, vale a dire i regolamenti che disciplinano le elezioni dei loro organismi di rappresentanza, in particolare l’Accordo vergogna siglato dalle direzioni di Cgil, Cisl e Uil con Confindustria nel 2014, in realtà siano molto importanti per la loro capacità di lotta e rivendicazione.

 

Partiamo dai fondamentali

A volte, per orientarsi in temi complessi come quello della rappresentanza, è utile porsi le domande giuste, proviamo quindi a porre tre domande che crediamo essere basilari: 1) Chi dobbiamo rappresentare? 2) Cosa intendiamo per «rappresentanza»? 3) come dovrebbe svolgere il suo ruolo un delegato?
Alla prima domanda rispondiamo che dobbiamo rappresentare i lavoratori; questa risposta, che può apparire come scontata, in realtà tanto ovvia non è: dobbiamo partire dalla consapevolezza di classe, vale a dire che la classe operaia, accomunata dalle medesime condizioni di sfruttamento, ha interessi opposti e inconciliabili con la classe sociale dei padroni; «opposti» e «inconciliabili», due parole da tenere bene a mente e non dimenticare.
La risultante di questo primo ragionamento è la base della risposta alla seconda domanda: come intendiamo noi la rappresentanza? Semplice: la rappresentanza degli interessi dei lavoratori (opposti e inconciliabili a quelli dei padroni), quindi non una delega in bianco, ma l’assolvimento di un mandato politico che deve nascere nelle assemblee operaie nei luoghi di lavoro, assemblee che è importante promuovere e incoraggiare affinché siano più partecipate e inclusive possibile. Infatti è solo riunendosi e confrontandosi sui loro problemi che i lavoratori possono mettere a fuoco le loro rivendicazioni e decidere democraticamente le forme di lotta da adottare per conquistarle.
La democrazia però — e qui rispondiamo alla terza domanda — non può e non dev’essere considerata come antitetica e alternativa al ruolo di direzione politica, il rappresentante sindacale, o delegato che dir si voglia, generalmente eletto proprio per le sue capacità e il suo carisma, che fanno di lui un’avanguardia di lotta, non deve limitarsi riprodurre in modo meccanico e acritico il mandato assembleare: il ruolo di una direzione politica di classe è fondamentale, al contempo il ruolo di chi dirige una lotta deve sempre rispettare le decisioni prese dai lavoratori in assemblea: proporre senza imporre, per dirla a mo’ di slogan; ma soprattutto resistere alla tentazione di fare scatti in avanti isolandosi dal resto dei lavoratori: meglio un passo avanti tutti assieme che dieci passi in solitaria.

 

L’accordo vergogna sulla rappresentanza

Dopo oltre 20 anni di vigenza dell’accordo interconfederale del ‘93, il 10 gennaio del 2014 viene siglato il cosiddetto Testo unico sulla rappresentanza (Tur), che in realtà, a dispetto del suo nome, altro non è che l’ennesimo accordo interconfederale che vincola solo le parti contraenti.
Quali differenze ci sono tra l’accordo del ‘93 e quello del 2014? Perché alcuni sindacati di base sottoscrivevano per accettazione le regole del ‘93 per partecipare alle elezioni della Rsu e oggi si rifiutano di accettare le regole del 2014? Spesso i lavoratori chiedono agli attivisti dei sindacati non firmatari del cosiddetto Tur, il motivo della loro mancata candidatura alle elezioni per la Rsu. Per sintetizzare potremmo dire che l’accordo del ‘93 era discriminatorio nella disciplina elettorale e nella ripartizione dei seggi, ma non andava a ledere la libertà d’azione sindacale dei componenti della Rsu, mentre l’accordo del 2014 (non a caso soprannominato «accordo vergogna») è basato su un ricatto inaccettabile, perché baratta una serie di agibilità e diritti sindacali in cambio di pace sociale, introducendo clausole di raffreddamento che limitano gravemente il diritto di sciopero.
Proviamo ora ad applicare le nostre tre domande all’Accordo vergogna: quali interessi vengono rappresentati? Non certo quelli dei lavoratori; perché se accettiamo che la nostra rappresentanza sia disciplinata dalle regole di Confindustria e accettiamo di spuntare la nostra principale arma di lotta, lo sciopero, vuol dire che non stiamo facendo i nostri interessi di lavoratori, ma quelli del padrone; che tipo di rappresentanza prevede l’Accordo vergogna? Una rappresentanza monca, se non finta, perché i sindacati conflittuali non firmatari sono esclusi dalle elezioni della Rsu, togliendo così il diritto di scelta dei lavoratori, che potranno godere di una rappresentanza solo dai sindacati scelti dal padrone perché hanno accettato le sue regole.
Infine, qual è il ruolo del rappresentante sotto l’accordo vergogna? Un ruolo compresso da una gabbia di regole liberticide e antioperaie, finalizzate a contenere il conflitto e a incanalare le rivendicazioni dei lavoratori verso il tavolo della concertazione, ma la concertazione tra due classi che hanno interessi «opposti e inconciliabili» non può che tradursi in subordinazione alla classe dominante. E interi decenni di storia dovrebbero ormai averlo ampiamente dimostrato.
Con l’accordo del 10 gennaio 2014 si consegnano definitivamente ai padroni le chiavi della nostra rappresentanza sindacale, dando loro la facoltà di decidere chi e come deve «rappresentarci».

 

Uniamoci nella lotta di classe e riprendiamoci i sindacati!

Cosa possiamo fare quindi? Sicuramente non dobbiamo fare quello che stanno facendo da anni le direzioni dei sindacati, sia quelle confederali che quelle del sindacalismo di base, cioè dividere i lavoratori, tradurre la frammentazione di sigle sindacali in frammentazione della nostra classe, senza fare alcuna distinzione tra base e direzione, attribuendo ai lavoratori le colpe dei dirigenti sindacali.
Al contrario, è necessario che i lavoratori, indipendentemente dalla loro collocazione sindacale, si uniscano nella lotta per una rappresentanza libera dalle mani sporche del padronato e delle direzioni dei sindacati confederali.
Gli effetti nefasti dell’Accordo vergogna del 2014 si sono abbattuti su tutta la classe operaia, compresi i lavoratori iscritti alle organizzazioni firmatarie. Se da una parte le segreterie di Cgil, Cisl e Uil hanno sottoscritto l’infame accordo del 2014, dall’altra il sindacalismo di base ha perso l’occasione storica di costruire un’alternativa solida e credibile che possa essere attrattiva per i lavoratori. Molte organizzazioni sindacali cosiddette «di base» hanno capitolato svendendo al padrone la rappresentanza sindacale dei lavoratori, le poche rimaste, per ora, a non sottoscrivere il patto col diavolo, vacillano verso la firma: già nelle fabbriche ci sono stati casi di candidature sotto il nome di altri sindacati firmatari per aggirare le regole; le componenti burocratizzate nei sindacati non firmatari, più interessate ad alimentare la struttura che le mantiene che alla sorte dei lavoratori, stanno spingendo senza sosta per la capitolazione.
Dobbiamo riprenderci i nostri sindacati e strapparli dal controllo di dirigenti e burocrati venduti, dotarci al contempo di strumenti di democrazia operaia come comitati e collettivi.
Noi stiamo dalla parte dei tanti lavoratori e delle tante avanguardie operaie che in tutti i sindacati (nessuno escluso!) non accettano di farsi ingabbiare dalle regole del padronato e delle burocrazie sindacali ad esso asservite e lottano per una rappresentanza realmente libera e democratica, dove i lavoratori siano protagonisti delle loro lotte e nei loro sindacati, e scelgano le regole per formare i loro organismi di rappresentanza e chi eleggere a rappresentarli.

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