Partito di Alternativa Comunista

Violenza contro le donne: l’ipocrisia dei Decreti legge di Laura Sguazzabia

Violenza contro le donne: l’ipocrisia dei Decreti legge

 

 

di Laura Sguazzabia

 

Mentre il Consiglio dei ministri del governo Meloni approva il Decreto Caivano, che accentua le misure repressive nei confronti dei giovani e delle famiglie povere, molte associazioni di donne segnalano che nessuna misura seria è stata fino ad oggi presa per contrastare la violenza di genere. Pubblichiamo qui un articolo uscito sul numero estivo di Progetto comunista che analizza il recente Decreto relativo alla violenza sulle donne (la redazione web).

 

 

L’ultimo report pubblicato dal Dipartimento di pubblica sicurezza ha fatto il punto al 28 maggio sulla situazione degli omicidi in Italia: dall’1 gennaio al 28 maggio di quest'anno nel computo figurano 45 femminicidi, di cui 37 avvenuti in ambito familiare oppure affettivo. Come ha sottolineato l’associazione Donne in rete contro la violenza (D.i.Re), si continua a registrare un femminicidio ogni 2 giorni. Tant’è che pochi giorni dopo la pubblicazione del report è stato necessario aggiornare il numero delle vittime con le morti tragiche di Giulia Tramontano e Pierpaola Romano. Nel bel mezzo della bufera mediatica e dell’onda emotiva generate da questi due ultimi femminicidi, lo scorso 7 giugno il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro per la famiglia, la natalità e le pari opportunità Roccella, del ministro dell’interno Piantedosi e del ministro della giustizia Nordio, ha approvato un disegno di legge volto «a introdurre disposizioni per il contrasto alla violenza di genere contro le donne e contro la violenza domestica».

 

Cosa dice (e cosa non dice) il Ddl

Secondo quanto riportato sul sito ministeriale, «l’obiettivo dell’intervento è quello di rafforzare la tutela della vittima accrescendo l’attenzione verso i “reati spia” e inasprendo le misure di protezione preventiva». Riguardo alla persecuzione del reato, il provvedimento fissa tempi stringenti per l’adozione delle misure cautelari, come l’utilizzo più rigoroso del braccialetto elettronico, e dispone l’arresto anche in «flagranza differita», ossia fondata sull’acquisizione di documentazione video-fotografica o che derivi da applicazioni informatiche o telematiche. Il disegno di legge, inoltre, favorisce la specializzazione dei magistrati che si occupano di questo reato, prevede l’obbligo di «circolarità informativa», affinché siano adottate le opportune misure di protezione delle vittime in caso di estinzione, inefficacia, revoca o sostituzione in melius di misure cautelari coercitive per gli autori di violenza. Stabilisce il superamento di percorsi di recupero con esito favorevole accertato dal giudice per l’accesso alla sospensione condizionale della pena. Infine, viene introdotta una provvisionale a titolo di ristoro (anticipato rispetto al raggiungimento della sentenza di condanna) in favore della vittima o, in caso di morte, degli aventi diritto, in condizioni di bisogno». Tuttavia, i 15 articoli che compongono il testo riprendono sostanzialmente quanto già contenuto nel Codice rosso del 2019, costituendone null’altro che una integrazione.
Il Ddl, accolto con maggiore o minore entusiasmo dalla compagine politica, è stato criticato sia nel metodo (scarso o nullo coinvolgimento nelle diverse fasi del processo di elaborazione) sia nel merito dalla rete nazionale antiviolenza D.i.Re. In particolare, l’organizzazione mette l’accento sul carattere sistemico della violenza sulle donne, che richiederebbe interventi che vanno al di là dell’ambito legislativo. Ad esempio, sarebbe fondamentale l’erogazione di risorse economiche per le associazioni che si occupano di accompagnare le vittime nel percorso di fuoriuscita dalla violenza: da tempo i centri antiviolenza lamentano la mancanza di fondi, bloccati e senza un piano di distribuzione, utili per mantenere la continuità degli interventi e non lasciare le donne sole. O lo stanziamento di fondi che consentano di lavorare in maniera continuativa sulle attività di prevenzione: va precisato che la violenza sulle donne spesso non è riconosciuta in primis proprio dagli operatori della giustizia, come bene ci rappresenta l’assoluzione dell’operatore scolastico accusato di violenza sessuale da una studentessa che ha raccontato di essere stata palpeggiata dall’uomo a scuola. I giudici hanno ritenuto che «il fatto non costituisce reato», poiché, oltre al comportamento oggettivo del bidello, mancherebbe l’intento soggettivo di commettere una violenza; in sintesi, il Tribunale ha accolto la tesi difensiva secondo cui l’atto può configurarsi come uno scherzo, benché «inopportuno nel contesto in cui è stato realizzato, per la natura del luogo e dei rapporti tra alunno e ausiliario».
Rispetto ai fondi, nel testo figura ancora, come nel 2019, la dicitura «invarianza finanziaria», cioè senza stanziamenti aggiuntivi capaci di sostanziare svolte significative.

 

Problema emergenziale o strutturale?

Per provare a rispondere, citiamo le parole di Susanna Zaccaria, presidente della Casa delle donne di Bologna, che nelle sue dichiarazioni pone l’accento sulla mancanza di una visione d’insieme del problema, sottolineando la problematicità di un atteggiamento di carattere emergenziale e non strutturale rispetto al tema della violenza sulle donne: «Non mi stupisco che un governo di destra veda l’approccio solo in termini repressivi. Invece sappiamo benissimo che la violenza di genere andrebbe affrontata in modo organico, cercando di contrastare nella società tutto ciò che porta alla violenza sulle donne. Non mi sembra che ci sia un approccio ai diritti per tutelare le donne […] non si può considerare la violenza sulle donne come qualcosa di distinto dalla libertà di scelta delle stesse: tale libertà risulta messa a rischio dal movimento antiabortista e dall’obbligo, che tuttora sussiste, ad affido condiviso dei figli con mariti violenti».
Siamo convinti anche noi, e lo diciamo da tempo, che l’ondata di violenza che ha investito l’universo femminile mondiale non sia frutto di un’emergenza, ma la conseguenza di scelte precise, operate da un sistema in crisi, quello capitalistico, che cerca di auto conservarsi, utilizzando maschilismo, xenofobia, razzismo per sfruttare, opprimere e discriminare in generale i più deboli della società, nel caso le donne. In particolare, all’interno della famiglia, cellula fondamentale della società capitalistica, si riversa la crisi economica in cui il capitalismo si dibatte e in misura maggiore sulle donne per il ruolo fondamentale che esse svolgono.
Come più di un secolo fa aveva già evidenziato Engels, nella famiglia moderna si realizza la schiavitù della donna e si riproducono le dinamiche sociali di scontro tra classi dove la donna incarna il proletariato e l’uomo, maggiormente dotato del potere economico, riveste il ruolo del borghese, sovrastando anche fisicamente la donna. Non è dunque casuale che la maggior parte degli episodi di violenza afferisca al contesto familiare e si origini nelle condizioni di disagio in cui versa la maggior parte delle famiglie italiane. Le condizioni di miseria e di povertà sono il terreno ideale perché la violenza ed i maltrattamenti familiari verso le donne si esasperino.

 

Un programma di classe

La lotta contro la violenza maschilista non passa attraverso le leggi dei governi borghesi, ma attraverso un programma chiaro che deve essere portato avanti e difeso dall’intera classe proletaria e dalle sue organizzazioni.
Asili nido e materne, scuole aperte a tempo pieno, ospedali pubblici che funzionino e non richiedano alle famiglie di concorrere materialmente all’assistenza, lavanderie e mense pubbliche sono condizioni indispensabili per liberare le donne dal carico di lavoro domestico che le opprime e che devono conciliare col lavoro fuori casa.
Parità di salario a parità di mansioni, corretti inserimenti lavorativi senza precarietà e flessibilità, tutela della maternità, istruzione di massa pubblica e gratuita secondo le reali inclinazioni di ognuna sono condizioni indispensabili per garantire alle donne autonomia e indipendenza economiche e per permettere loro una reale partecipazione alla vita politico, sindacale e culturale. Accesso ai servizi pubblici e ai consultori, possibilità di decidere della propria sessualità e capacità riproduttiva sono condizioni indispensabili per garantire alle donne la propria autodeterminazione.

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