La doppia oppressione al tempo del coronavirus
di Laura Sguazzabia
Salute, lavoro, cura domestica
Nonostante i dati ufficiali dicano che le donne si sono ad oggi (forse) ammalate meno, stanno pagando un prezzo veramente molto alto, prima di tutto in termini di salute.
Per tutte le altre donne, c’è stata la riduzione o la perdita della retribuzione. Nel mondo del lavoro le donne nella stragrande maggioranza sono soggette a contratti temporanei o a tempo parziale, e spesso sono assorbite come forza lavoro dal mercato nero, a discapito dei propri diritti. Questo genera una differenza salariale con gli uomini, che ha un impatto fortissimo sulle scelte delle donne rispetto alla loro presenza all’interno della famiglia: se gli uomini guadagnano di più è facile che resti a casa chi guadagna di meno, ossia la donna, sulla quale ricade il lavoro di cura della casa e dei figli, non solo a causa dei ruoli tradizionali radicati nella mentalità comune e per le discriminazioni, ma anche per l’assenza di servizi che le sostengano nella scelta lavorativa e nella conciliazione dei tempi di vita/lavoro. L’emergenza Coronavirus ha amplificato questa situazione: moltissime donne sono rimaste senza lavoro o hanno dovuto rinunciare a parte della già misera retribuzione per rispondere alle necessità generate dalla crisi: travolte da una serie di provvedimenti relativi prima solo ad alcune zone (considerate più a rischio), poi all’intero territorio nazionale - chiusura delle scuole, sospensione dei servizi assistenziali domiciliari, mancanza della rete parentale per il fatto che gli anziani si sono rivelati il gruppo più vulnerabile in questa pandemia, e quindi da tutelare maggiormente - hanno perso il posto di lavoro o hanno accettato riduzioni di orario e/o congedi parentali mal retribuiti. Anche la tanto declamata adozione della modalità di smart working, è stato un ulteriore motivo di difficoltà perché l’applicazione «all’italiana» (ossia la riproduzione tra le mura domestica dello stesso orario del posto di lavoro) ha reso la conciliazione tra tempi di lavoro e di vita un compito quasi impossibile.
Oltre a perdere la propria indipendenza economica, e spesso la possibilità stessa di mantenere sé stesse e i propri figli, le donne hanno subito un ulteriore sovraccarico all’abituale lavoro domestico. Prima del Coronavirus, secondo i dati mondiali dell’Onu, le donne dedicavano già tra 1 e 3 ore in più degli uomini alle faccende domestiche; tra 2 e 10 volte più tempo al giorno per fornire assistenza (a figli e figlie, anziani e malati) e tra 1 e 4 ore al giorno in meno alle attività sociali. Ora vi si dedicano a tempo pieno, a causa dell’emergenza: l'istruzione dei figli all'interno della casa dal momento che le scuole sono chiuse, la cura degli anziani che non dovrebbero uscire perché sono a rischio ma che hanno bisogno di cure ancora più del solito (senza alcun aiuto per questo compito), la pulizia accurata della casa per evitare maggiori rischi di contagio, il contenimento psicologico dei membri della famiglia ecc. L'idea che i compiti domestici e di cura siano propri delle donne, e che questa sarebbe la loro funzione principale in questa società, continua ad essere accettata: non è un caso che la maggior parte dei lavori a cui le donne accedono nel mondo del lavoro siano collegati a questo (insegnanti, infermiere, operatrici sanitarie, addette alle pulizie, ecc).
Dover aiutare i figli nella loro istruzione scolastica è inoltre un sovraccarico anche emotivo, perché non tutte le famiglie hanno un computer e Internet, né hanno le condizioni materiali perché i minori seguano le lezioni elettronicamente, il che accrescerà il tasso di fallimento scolastico di ragazze e ragazzi delle famiglie più svantaggiate.
L’isolamento aumenta l’oppressione e il rischio di violenza
In un contesto di isolamento obbligatorio, si presume che sia un vantaggio comune rimanere a casa. Tuttavia, lo slogan «Tuttiacasa» non è valido veramente per tutti.
Non è valido per tutte le donne che hanno rinunciato a parte o a tutta la propria retribuzione per svolgere gratuitamente un lavoro nel privato che è funzionale al sistema capitalista perché con esso milioni di euro vengono risparmiati in salute, cure, ecc.
Non è valido per il mezzo milione di immigrati «irregolari» distribuito nei più disparati contesti sociali, dalle grandi stazione ferroviarie ai centri produttivi agroalimentari, che per la loro situazione di clandestinità vivono in condizioni igienico-sanitarie non adeguate e che non possono rivolgersi al sistema sanitario nazionale per la paura di essere scoperti.
Non è valido per tutte le donne immigrate rimaste senza lavoro perché spesso svolgono lavori poco qualificati, o già relegate in casa nel ruolo di moglie-madre perché per ragioni culturali sono «proprietà» del coniuge dal quale dipendono per l'accesso a servizi sanitari, ai documenti e per la partecipazione ad attività ricreative, oppure sistemate nei centri di accoglienza, sottoposte alla violenza di un regime semi-carcerario.
Non è valido per tanti appartenenti alla comunità Lgbt che spesso proprio nell’isolamento familiare trovano la maggiore fonte di oppressione, oppure che non hanno la possibilità di proseguire in percorsi di sostegno psicologico per la sospensione di tutte le terapie ritenute non urgenti.
Non è valido per le tante donne e i tanti minori che vivono ora a tempo pieno con il loro aggressore e che, a causa dell’isolamento non possono nemmeno chiedere aiuto. La dichiarazione di quarantena obbligatoria è stata in molti casi la condanna ad una pena detentiva: la convivenza forzata tra vittime e aggressori è tremendamente dolorosa e pericolosa. I Centri Antiviolenza hanno lanciato un allarme su un calo clamoroso delle denunce di violenza domestica, non perché queste situazioni si siano normalizzate, ma appunto per l’impossibilità per le vittime di fuggire dal proprio aguzzino.
Non è valido per le tante famiglie povere che vivono in spazi angusti, con ormai ridotte possibilità economiche per la perdita del lavoro di uno o di entrambi i coniugi, e che oggi riversano nella convivenza forzata la frustrazione di non poter vivere dignitosamente, come dimostra l’aumento di denunce per liti familiari dichiarato dalle forze dell’ordine.
Socialismo o barbarie?
Rispetto a tutto questo, cosa è stato fatto? Poco (e in modo ridicolo) o nulla. Il capitalismo impietoso non si è posto nessuno di questi problemi, ha continuato a preoccuparsi unicamente del proprio profitto, combattendo le proprie battaglie per evitare chiusure o anticipare riaperture di tutte le attività lavorative. Questa pandemia ha mostrato il capitalismo senza maschera, che usa ogni tipo di oppressione (razziale, culturale, etnica o sessuale) per spremere fino all'ultima goccia del sudore dei lavoratori e, a costo della loro stessa vita, continua a riempire le tasche dei padroni che non hanno più bisogno di niente, ma vogliono tutto.
È necessario, quindi, oggi più che mai che la classe lavoratrice nel suo insieme, e non solo le donne e i settori doppiamente oppressi, combatta unita per rovesciare questo sistema basato sullo sfruttamento e sull’oppressione, verso un mondo di libertà ed uguaglianza, senza miseria, povertà, guerre e morte.