Partito di Alternativa Comunista

Finanziaria 2025: solita ricetta per i lavoratori

Finanziaria 2025: solita ricetta per i lavoratori

 

 

 

 

di Alberto Madoglio

 

 

«Alla luce dei nuovi dati, in assenza di una significativa accelerazione dell’attività economica nella parte finale di quest'anno, la crescita del prodotto [Pil] prefigurata nel Piano strutturale di bilancio per il biennio 2024-25 appare più difficile da conseguire». Questa dichiarazione è stata fatta il 5 novembre da Andrea Brandolini, vice capo del Dipartimento di economia e statistica della Banca d’Italia durante la sua audizione alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato che aveva per oggetto la manovra finanziaria proposta dal governo. Potrebbe essere usata come riassunto per il nostro articolo sul tema, che di conseguenza si concluderebbe qui. Tuttavia pensiamo sia utile spendere qualche parola in merito, analizzando anche il quadro complessivo dello stato dell’economia nazionale e internazionale, secondo le notizie che sono arrivate in questi giorni.

 

Un quadro macro economico tutt’altro che roseo

Secondo l’Ocse, l’economia mondiale nel 2024-2025 crescerà di poco più del 3% annuo, dato inferiore rispetto alla media avuta nel decennio precedente lo scoppio della pandemia di Covid19. È previsto che il commercio internazionale aumenti di una percentuale inferiore rispetto a quella del Pil globale (e il probabile inasprimento della politica dei dazi, conseguenza della vittoria di Trump alle elezioni americane, potrebbe far sì che questo dato venga rivisto al ribasso). Le cicatrici causate dalla pandemia nel sistema economico globale, per riprendere una metafora usata da Michael Roberts, sono ben lungi dall’essersi rimarginate.
E la situazione dell’Italia? L’istat ha recentemente corretto al ribasso (0,4% rispetto allo 0,6% precedentemente comunicato) la crescita del Pil per il primo semestre dell’anno. Per il terzo trimestre i primi dati parlano di una crescita zero. Quest’ultimo dato è significativo, perché chi pensava che nel periodo estivo ci sarebbe stata una crescita nel settore dei servizi, in grado di compensare quella che già si immaginava non positiva del settore industriale, è rimasto deluso.
La produzione industriale è in calo da venti mesi consecutivi (con il mese di settembre che riporta un calo superiore al 4% confrontato con lo stesso mese del 2023) e con settori, come quello legato all’automotive, che hanno subito un vero e proprio tracollo (meno 15%, dato che molto probabilmente peggiorerà ulteriormente nell’ultimo trimestre: si ipotizza che a fine anno la produzione di autovetture dovrebbe essere tornata ai livelli di metà anni Cinquanta del secolo scorso).
Da parte del governo si riteneva che la stagione turistica avrebbe trainato l’economia del Paese, grazie agli introiti provenienti dal settore alberghiero, della ristorazione ecc. Sarebbero state le spese dei vacanzieri, italiani e esteri, a sostenere la crescita economica. Ma su quali basi si potevano fare simili previsioni se da oltre trent’anni i salari dei lavoratori nel Paese sono fermi? Di recente, i dati statistici informano che i consumi di ogni tipo sono in calo mentre cresce la propensione al risparmio. In previsione di tempi più cupi, chi può «accumula fieno in cascina». E i consumi dei soli turisti stranieri poco hanno potuto fare per invertire questa tendenza.
Al di là dei proclami più o meno trionfalistici e la narrazione di un futuro roseo, sono le stesse politiche governative che contribuiscono a loro volta a far sì che la situazione economica sia tutt’altro che florida. Per il 2024, ad esempio, il bilancio pubblico è previsto in avanzo primario (cioè quando le entrate superano le uscite al netto del pagamento degli interessi sul debito pubblico) per la prima volta dopo un quinquennio. Questo sta a indicare che, sebbene tutti si affannino ad affermare che il tempo delle politiche di austerity fanno parte del passato, una politica di bilancio restrittiva è tornata a dettare il segno di questi tempi.
Una precisazione. Se in una situazione di rallentamento economico, scelte restrittive di bilancio creano un circolo vizioso, una gestione delle finanze più espansiva non è detto che ne crei uno virtuoso. È il caso del Giappone che dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso si alterna tra recessione e stagnazione, pur avendo intrapreso per la gran parte di questi tre decenni e oltre una strada diversa da quella del contenimento di deficit e debito pubblici. Non possiamo entrare nei dettagli, ma altri sono i fattori che in un’economia capitalistica ne determinano il ritmo (per approfondire si legga il post sul blog di Michael Roberts dal titolo «Profits call the tune») (1).

 

Chi si rivede, l’austerity!

La finanziaria varata dal Governo, che entro la fine dell’anno deve essere votata dai due rami del Parlamento, accentua il carattere di classe antioperaio dell’esecutivo di destra. Delle promesse fatte ormai due anni fa durante la campagna elettorale non è rimasta traccia. La proposta di cancellazione della riforma delle pensioni varata dal tandem Fornero-Monti, una delle più odiate dai lavoratori negli ultimi decenni, è rimasta lettera morta. Non solo: sono state cancellate anche le minime modifiche (come quota 101 ad esempio) che per un breve periodo ne mitigavano in parte gli effetti.
Sono stati già presentati emendamenti alla Finanziaria per mezzo dei quali si vogliono favorire le banche e le assicurazioni, promuovendo ulteriormente il conferimento del Tfr ai fondi pensione, contribuendo così a indebolire quella che volgarmente viene chiamata la «gamba pubblica» del sistema previdenziale.
La sanità pubblica continua a subire tagli senza fine, che le acrobazie matematiche della Meloni non riescono a nascondere. La quota di questa voce in percentuale del Pil si avvicina sempre più al 6%, soglia da molti indicata come limite per la tenuta di un sistema sanitario degno di questo nome. Non c’è ombra di investimento che possa essere considerato tale per scuola, trasporti e pubblico impiego, che si trovano in una situazione drammatica. La riduzione dell’importo delle aliquote Irpef non è in grado di migliorare il tenore di vita delle classi subalterne. Anzi, essendo un taglio generalizzato che si applica anche ai redditi più elevati, farà sì che saranno questi ultimi a goderne i maggiori benefici.
Il ministro delle Finanze, il leghista Giorgetti, giustifica queste scelte con la necessità di preservare la tenuta dei conti pubblici, che, nel caso italiano, sono sempre in una situazione molto complicata, con il debito pubblico tricolore che si avvicina sempre più alla quota monstre di tremila miliardi di euro, quasi il 140% del Pil. Se il debito ha raggiunto questi livelli non è certo colpa di una eccessiva generosità verso i lavoratori e le classi sfruttate, come la totalità della propaganda mainstream vuole far credere. L’avanzo primario di cui parlavamo poco sopra è stata la caratteristica della finanza pubblica dai primissimi anni Novanta del XX secolo. Per i proletari sono decenni che viene servita austerità a colazione, pranzo e cena.
Se per il welfare pubblico si invoca una dieta dimagrante, non la stessa rigidità si applica per altri tipi di spesa. Alle spese militari ad esempio, la nuova finanziaria prevede che vengano destinati oltre trenta miliardi di euro, con un aumento di circa il 7% rispetto al 2023. In questo caso, a differenza di quello che riguarda ad esempio gli aumenti per i lavoratori pubblici, non si tiene conto del tasso di inflazione. Non sia mai che Leonardo, azienda leader nel settore delle armi, non possa fare i suoi profitti miliardari.
Nella scuola, a fronte di mancati investimenti per quella pubblica, sono stati presentati emendamenti che prevedono un bonus di 1500 euro alle famiglie di alunni delle private paritarie e l’esenzione dal pagamento dell’Imu per gli edifici di queste ultime. In questo secondo caso non si dice che la tassa è di competenza dei Comuni i quali, avendo a disposizione meno risorse, faranno ulteriori tagli al già disastrato welfare pubblico municipale.
Viene aumentato di altri tre miliardi il fondo per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina, inutile opera che, se mai verrà costruita, avrà un impatto ambientale e sociale devastante, mentre operai e studenti pendolari sono costretti a viaggiare su treni affollati, perennemente in ritardo e con il numero delle corse sempre più ridotto.
E cosa rimane della proposta di tassare gli extra profitti delle banche? Nulla. I tre miliardi di cui si parla dalle parti del governo non sono altro che un anticipo di imposte future, che poi verrà restituito. Non un grande sacrificio per un settore che alla fine dell’anno dovrebbe fare profitti per circa venticinque miliardi.

 

Segnali di ripresa delle lotte

Crediamo di poter affermare, senza pericolo di smentita, che questa è una delle manovre di bilancio dal carattere più smaccatamente di classe e anti popolare degli ultimi anni.
Come reazione sia al varo della legge finanziaria, sia alla situazione economica generale, prima i sindacati di base, poi Cgil e Uil hanno indetto uno sciopero generale di otto ore per il 29 novembre. Inoltre i sindacati dei metalmeccanici, in questo caso compresa la Cisl, hanno proclamato la mobilitazione della categoria che prevede scioperi, blocco degli straordinari e della flessibilità come risposta alla rottura delle trattative per il rinnovo del contratto nazionale da parte di Federmeccanica. La Cgil non ha siglato il rinnovo del contratto del pubblico impiego, che prevede aumenti pari a un terzo del tasso di inflazione cumulato nel triennio di riferimento. Probabile che riprenderà una mobilitazione anche in questo settore.
A prima vista ci sarebbe da gioire per quella che appare come una svolta verso una maggiore propensione alla lotta da parte delle direzioni sindacali maggioritarie. A ulteriore conferma di questa presunta svolta di 180 gradi ci sono le parole del segretario Landini circa la necessità di una «rivolta sociale» da parte dei lavoratori.
Tuttavia le cose sono più complesse di come appaiono. Per quanto riguarda le parole «incendiarie» del segretario della Cgil, pochi ricordano come, quando era ancora segretario della Fiom, affermò di essere pronto a proporre l’occupazione di tutte quelle aziende del settore che si apprestavano a licenziare migliaia di lavoratori. Anche allora i giornali titolarono a otto colonne, i politici si scandalizzarono, ma nessuna fabbrica venne occupata nonostante il mancato stop ai licenziamenti.
Siamo pronti a scommettere che anche stavolta gli ardori barricaderi si spegneranno presto. Gli apparati sindacali, piccoli o grandi che siano, sono ormai legati a doppio filo agli interessi e alle necessità della borghesia imperialista e dei suoi governi, quindi non possono, né vogliono, dar vita a pratiche di lotta che cerchino di recidere questo filo.
Sono però le condizioni oggettive che li spingono ad avere una postura in apparenza più radicale. I licenziamenti, la perdita di potere d’acquisto dei salari, il deteriorarsi delle condizioni di vita e di lavoro, spingono i proletari di ogni settore a reagire a questo stato di cose che ritengono sempre più insopportabile. Vediamo categorie, come quella dei medici, che scioperano per la prima volta dopo anni, così come lavoratori del settore automobilistico, riempire a decine di migliaia le strade di Roma lo scorso ottobre.
Dall’altro lato padroni e governo, preoccupati dal calo dei profitti e da una concorrenza internazionale sempre più feroce, non vogliono fare la benché minima concessione.
È chiaro che i burocrati devono tenere conto di questa realtà per evitare di essere scavalcati e sorpresi da un’onda di malessere sociale sempre più crescente. Il loro alzare la voce e il tono della polemica è una tattica per tornare a essere interlocutori affidabili per governo e padroni, sperando di ottenere qualche briciola da poter presentare ai loro iscritti come una grande vittoria della loro «intransigenza». O a suonare la ritirata ai primi segni di riflusso delle mobilitazioni.
Lo abbiamo visto lo scorso anno in Francia. Dopo scioperi e lotte contro la riforma delle pensioni voluta da Macron (le pensioni, sempre le pensioni), alla prima occasione i burocrati della Cgt e soci hanno abbandonato la postura combattiva, accontentandosi di delegare a Parlamento e tribunali la difesa dei diritti dei proletari.

Una nuova stagione di lotte si sta preparando. Siamo certi che risveglierà quella massa di lavoratori che fino ad oggi ha assistito sfiduciata al corso degli eventi. Alla sfiducia di questi ultimi anni subentrerà una nuova consapevolezza nella forza della nostra classe: nulla possono padroni, ministri e burocrati quando milioni di lavoratori decidono di essere protagonisti del loro destino. Da parte nostra non ci limiteremo solo a unirci a loro. Cercheremo di far comprendere che oggi più che mai solo un cambiamento rivoluzionario è l’unica alternativa ai disastri che il sistema capitalista ci propina ogni giorno che passa.

 

Note

1. https://thenextrecession.wordpress.com/2012/06/26/profits-call-the-tune/

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